I ragazzi ARCA Enel sono a Bangkok! – #THAILARCA
“Niente baura, questa essere Venezia di Oriente, niente baura amico”.
Il suo piede destro sale e scende sull’acceleratore della barca in legno sul Chao Phraya, ha una cicatrice strana all’altezza dell’alluce destro. Quello è il suo timone, penso mentre lo guardo scrutare scaltro il profilo di onde giallastre di questo fiume largo come un lago e profondo come il mare, che taglia l’immensa e misteriosa Bangkok in tanti frammenti.
Ha un cappellino blu con la tesa in fronte, un paio di pantaloni sdrucinati ai lati, una maglietta dove in inglese sta scritto in rosso “bye bye”. Il suo piede sale e scende. La barca parte. Quello è il timone della sua vita. Il termometro segna 24 gradi, 90% di umidità e la camicia s’inzuppa di sudore.
Ignoro come quell’uomo si chiami, ignoro pure dove stia andando, ignoro dove mi trovo con precisione, ignoro il programma del pomeriggio di questo piccolo gruppo di giovani intimiditi e un po’ preoccupati che da 24 ore sono partiti insieme a me per visitare questo meraviglioso paese orientale, per costruire e vivere #thailarca, dopo il bellissimo viaggio di un anno fa in Sri Lanka.
Roberto, Francesco, Paola e Viviana erano con me anche 365 giorni fa, tutti gli altri no; sono giovanissimi e soprattutto nuovi compagni di viaggio, hanno occhioni grandi e la stessa identica voglia di scoprire il mondo, almeno per ora, questo pezzo di mondo che profuma di Oriente e puzza di Occidente. Già, perché nonostante siano trascorse solo una manciata di ore da quando un aereo svizzero ci ha fatto sbarcare da queste parti, l’impressione, forse inquinata e superficiale, che si ha di questa immensa metropoli particolarmente evoluta e tecnologicamente avanzata, è che abbia assorbito nel corso dell’ultimo secolo come molte altre cugine orientali o africane il peggio delle nostre terre emerse.
Le multinazionali con i loro enormi grattacieli, edifici con architetture anonime, la voglia di occidentalizzazione che di fatto uccide la cultura di un popolo meraviglioso come questo, che nel corso dei millenni precedenti era riuscito a preservare la propria integrità culturale ed identitaria ed aveva in gran parte respinto l’assedio degli europei.
Dalla barca che intanto parte e ci mostra la città da un punto di vista diverso, si notano benissimo l’alternarsi della povertà estrema alla ricchezza più sfrenata, l’una accanto all’altra come raramente si riesce a vedere. Sul fiume gli antichi avevano costruito questa città, ed è qui che è rimasto il suo sapore più autentico, anche se lercio e realista; una pugnalata sul cuore ma da prendere di petto.
Baracche di legno marcio con tetti coperti di eternit si alternano a ville in vetro. Varani giganti strisciano sul pelo dell’acqua accanto ad immensi pesce gatto; dalle vecchie palafitte costruite sul fango delle sponde dei canali spuntano antenne satellitari, televisori a schermo piatto, accanto a divani squarciati, sedie abbruciacchiate, bottiglie rotte e ammassi di oggetti dovunque. Dalle pergole annerite e puzzolenti di quelle palafitte ciondola spesso un piccolo Buddha, e spesso risuona sospinto dal vento che sale dai palmeti più lontani, risuona con le preghiere di questa gente che dorme sui marciapiedi accanto alla riva dell’acqua e non guarda nessuno.
Ogni tanto qualche operaio in cima a ponteggi di bambù e senza alcuna protezione alza una mano per salutare. Ti mostra 65 denti bianchissimi, fa ciao con la mano e sfila, tra il silenzio vicino e di rumori lontani del traffico caotico della megalopoli. L’uomo che guida la bagnarola non dice una parola, di tempo in tempo suona il clacson che è lo stesso di certe nostre auto degli anni cinquanta. Getta pezzi di pane a carpe a specchio voraci e ammassate l’una sull’altra sull’acqua marrone. Il sole pallido si nasconde dietro tre nuvole e l’umidità porta via tutti i pensieri.
Questa Venezia di Oriente, che pochi giorni fa è stata squarciata da un boato di una bomba e dall’angoscia del terrorismo pare non essere minimamente intaccata dalla paura che non sembrerebbe nascondersi da nessuna parte.
Scendiamo dalla barca, visitiamo il giardino di un tempio meraviglioso, in maioliche e pietre, lungo il fiume, il tempio dell’Aurora, dicono uno dei più magnificenti d’Oriente. Tutto qui è assolutamente perfetto. Neppure una cartaccia per terra, mentre di là dal muro di recinzione le barche lungo i canali s’incrociano e cantano il loro inno alla sera.
La spiritualità sale, in silenzio, da tutte le parti, ti prende alle spalle come vento alla schiena si addolcisce lentamente mentre la senti arrivare all’improvviso.
Guardo l’orizzonte. Il tramonto non è lontano, il profilo dei grattacieli segna il confine nebbioso tra terra e cielo. Il monsone per ora è clemente.
Abbasso gli occhi e quell’uomo che guida la barca alza la mano. Penso al suo piede, timone della vita. Il suo piede che sale e che scende, acceleratore del suo tempo. Risaliamo in barca, lo guardo intensamente negli occhi, abbozza un sorriso.
Altre tre parole in italiano. “Amico, niente baura, questa Venezia di Oriente”.
Quella sua Venezia che inizia sul timone della sua bagnarola e finisce sull’acceleratore, che pacatamente sale e pacatamente scende, come il profumo d’Oriente e il puzzo d’Occidente di questa città, che arriva e poi se ne va anche dagli occhi di questi ragazzi, che si vede da lontano, timidamente, hanno una voglia matta d’innamorarsi di questo posto umido e profondo.
La barca riparte, questo Caronte gentile e solitario ci ha lasciato qua. Ora tutto è da scoprire.
In fondo ce lo eravamo sussurrati all’orecchio l’anno scorso, dicendoci addio. Ogni fine, è un nuovo inizio.
Filippo Boni